La mostra fotografica “L’Italia è un desiderio. Fotografie, paesaggi e visioni 1842 – 2022 Le collezioni Alinari e Mufoco” alle Scuderie del Quirinale a Roma è senza dubbio una delle migliori e più riuscite degli ultimi anni, grazie a una prospettiva concettuale illuminata e ambiziosa che ha permesso di raccontare la storia della fotografia italiana considerando i diversi ambiti, da quello puramente tecnico a quello squisitamente artistico: è una celebrazione della fotografia nella sua forma più ampia.
Raramente è possibile apprezzare in un’unica proposta curatoriale i diversi supporti di ripresa, di formato, di stampa, di colore. Una narrazione coinvolgente che ha il suo fulcro nel paesaggio, dove il contrasto non è soltanto tra le luci e le ombre, ma nel suo continuo mutare, pertanto oltre la rappresentazione, dall’immagine all’immaginazione, da ciò che è (visibile) a ciò che non è più (in-visibile). È un paesaggio che nel suo fascino tutto fotografico è capace di alimentare un senso di profondo smarrimento e altrettante emozioni contrastanti, dove la bellezza non è solo nella magia di una reazione chimica, ma nella sensibilità di chi guarda: è una fotografia dell’anima.
“Panorama di Roma ripreso dalla quercia del Tasso” è questa panoramica di Michele Petagna del 1865, composta da sette stampe all’albumina su carta, a creare fin da subito un terremoto interiore, perché l’istante è sì decisivo (Bresson) o poetico (Sabine Weiss), ma lo è fin quando la realtà è replicabile, diversamente l’istante rimane orfano. Solo la fotografia nella sua bellezza è così brutale, quella città non c’è più, quella Roma, così eterna, è ormai un ricordo. Solo le immagini non fotografiche conservano la loro capacità evocativa, perché in un certo senso danno speranza, riposano l’occhio, non costringono a guardare i dettagli alla ricerca di una corrispondenza con il reale, annullano il senso critico per lasciare spazio a quello estetico. In questo senso, il confronto prima con il “Panorama di Roma da Monte Mario” di Ippolito Caffi del 1857, rappresentato su tre pannelli, poi “La quercia del Tasso” di Arthur John Strutt del 1843, entrambi esposti a Palazzo Braschi a Roma, permettono un agevole confronto tra due tecniche di rappresentazione, quella pittorica e quella fotografica, mostrando il grande valore documentaristico della fotografia, ancora lontana, per poco, da quello artistico.
Tuttavia, l’ambizione della mostra va oltre l’interazione tra pittura e fotografia, peraltro lasciata alla fantasia dell’utente; il cuore della narrazione è per l’appunto il paesaggio e l’implicito legame con l’essere umano. Ogni fotografia esposta trasmette un messaggio unico e personale, in grado di stimolare profonde riflessioni e di creare un’esperienza visiva di altrettanta bellezza. La sezione al primo piano intitolata “La camera oscura: negativi e trasparenze”, lascia senza parole, è una festa per gli occhi, una gioia per gli amanti della fotografia, dove si scopre il colore già sul finire del 1800, dove la pellicola è essa stessa un’opera d’arte.
In effetti, l’aspetto particolarmente gradito è anche nella diversità dei supporti fotografici che hanno reso possibile la fotografia e la sua storia, dagli scatti analogici alle opere digitali, dai formati tradizionali alle nuove tecnologie, insomma dalla Calotipia al RAW, in un periodo, quello attuale, segnato dall’ingresso dell’intelligenza artificiale. “L’Italia è un desiderio” è a tutti gli effetti anche un racconto della versatilità e dell’innovazione nel mondo della fotografia, un’opportunità unica per gli appassionati di fotografia di scoprire l’evoluzione del mezzo fotografico nel corso del tempo.
È bastato mettere insieme due archivi, in relazione di continuità, cosa non semplice da un punto di vista curatoriale, quello Alinari e quello del Mufoco, rispettivamente cinque e due milioni di negativi. Viene proposta così al pubblico una mostra con oltre 600 fotografie che raccontano il paesaggio italiano dal 1842 al 2022, grazie a un allestimento sobrio e curato nei minimi dettagli, dalle luci alle didascalie, in un percorso che non stanca, ma affascina. Le 600 fotografie sono divise su due piani, così come lo sono gli archivi, al primo quello Alinari, al secondo quello Mufoco.
«Ma la questione della costruzione di una corretta storia della fotografia nel nostro paese impone anche un discorso differente, quella della costruzione di un nodo unico o di pochi nodi funzionanti a livello nazionale, e collegati, che si occupino della raccolta, della integrazione reciproca e soprattutto dell’analisi, conservazione e organizzazione dei materiali superando le barriere locali.»
Queste le parole di Carlo Arturo Quintavalle nell’introduzione alla raccolta di scritti sulla fotografia, edito nel 1983 da Feltrinelli, intitolato Messa a fuoco. L’esigenza di far comunicare i diversi archivi, considerando anche la storia dei supporti negativi, degli apparecchi fotografici, delle carte, ha come scopo primario quello di scrivere una storia della fotografia accurata. Questo discorso si rende ancor più necessario guardando questa mostra, perché il paesaggio italiano nella fotografia dei primi decenni dell’invenzione del mezzo fotografico, non è una prerogativa Alinari, come qualcuno potrebbe forse pensare, o quello strettamente legato principalmente al viaggio, nella seconda metà del Novecento. Al contrario, sono diversi gli autori che fin da subito hanno avuto un diverso approccio compositivo, una diversa sensibilità rispetto al soggetto fotografato, come testimonia il fotografo Giovanni Gargiolli, fondatore del Gabinetto fotografico nazionale:
«le coordinate Alinari sono state individuate dalla critica, sebbene recentemente riviste e calibrate su un’attenta analisi dei primi anni della sua produzione, nei principi di assialità e simmetria, isolamento del monumento e assenza di contesto urbano ed ambientale, punto di vista elevato.
Nel confronto dunque con la produzione Alinari nonché con la strabordante quantità di immagini delle emergenze monumentali e artistiche del paese prodotte dalle altre imprese fotografiche commerciali, e nella pratica del “vedere e rivedere” la produzione dei primi decenni del Gabinetto Fotografico possiamo indicare a nostra volta alcune coordinate visive ricorrenti. Innanzitutto la lenta e costante progressione della campagna ricognitiva che procede dal territorio fino al dettaglio dell’opera cui segue uno sguardo attento a misurare l’avvicinamento all’oggetto nelle sue varie e possibili declinazioni materiche (p. 103-105, 116); la presenza di interferenze visive, così come risulta nella spensierata sporcizia delle immagini, e cioè gli elementi secondari che rischiano di frapporsi finanche alla lettura analitica e stilistica dell’opera (p. 115); l’utilizzo di dispositivi di fortuna recuperati sul luogo delle riprese – sgabelli, sedie, panche – adattati con ingegnosità al fine di facilitare la ripresa dell’opera, e lasciati a vista nelle fotografie (p. 114, 117-118); la tendenza a riprendere il monumento nel contesto paesistico e urbano, quasi sempre assente nelle pulite fotografie delle ditte commerciali, e secondo linee di fuga fortemente diagonali (p. 124-125); l’uso di carichi contrasti luministici e di ombre riportate (p. 126-127); l’insistenza su strutture compositive esterne all’oggetto ma proprie del medium fotografico (p. 108).»1
Il secondo piano rappresenta un vero trionfo della fotografia del paesaggio italiano del Novecento, da Fontana, Basilico, Ghirri, solo per citarne alcuni, la cui divisione tematica propone diverse interpretazioni tra loro fortemente contrastanti e comunque sempre piene di fascino. L’iniziale magia dell’impressione lascia spazio all’aspetto concettuale, il paesaggio non è più soggetto privilegiato per affermare la fotografia, il mezzo fotografico, ma diventa l’occasione per indagare i complessi significati rappresentati non soltanto dagli oggetti, ma anche dalle persone (Vitali), dai comportamenti (Bonaventura e Imbriaco), dai colori (Fontana), dalle forme (Guidi), dalle atmosfere (Ghirri). Apprezzabile poi l’opportunità di poter vedere i diversi stili; fotografi e fotografe vengono inevitabilmente messi a confronto, grazie al quale emergono le diverse sensibilità creative e interpretative.
Dunque, la fotografia nella sua bellezza è così brutale e visto che la successiva mostra alle Scuderei del Quirinale si intitola “Favoloso Calvino”, vale la pena concludere con le sue parole tratte dal racconto “L’avventura di un fotografo”:
«La realtà fotografata assume subito un carattere nostalgico, di gioia fuggita sull’ala del tempo, un carattere commemorativo, anche se è una foto dell’altro ieri.»
Federico Emmi